31 luglio 2025
QUALCHE RIGA PER COMINCIARE
Aldo Badini
La ricchezza di informazioni è garanzia di verità socialmente utili? E la veridicità di quelle informazioni conduce al sapere e a un potere sostanzialmente benevolo? Oppure la mole e la fiumana incessante di dati sono pericolose in sé, vere e proprie armi per chi le controlla?
In un recente e corposo saggio (Nexus – Breve storia delle reti di informazione dall’età della pietra all’IA – Bompiani 2024) lo storico e filosofo Yuval Noah Harari respinge tanto la prima quanto la seconda visione per accreditarne una terza, né ingenua né scettica, ma più elaborata e complessa. Il flusso di dati e di notizie – scrive – è certamente funzionale all’incremento di sapienza e di benessere, ma è pure indispensabile per la gestione dell’ordine sociale; un ordine – è appena il caso di aggiungere – necessario, ma al quale spesso e volentieri si è sacrificata la correttezza informativa, alterandola, manipolandola, o semplicemente integrandola con la costruzione di miti, vuoi a sfondo religioso, oppure politico. Ne consegue che l’equilibrio tra la gestione delle informazioni finalizzate al sapere e quelle funzionali al potere e all’ordine sociale è spesso difficile e instabile, come dimostrano la storia e la cronaca. Senza retrocedere all’esemplarità del processo a Galileo, basta ricordare che la Germania del primo Novecento è stata laboratorio di conoscenze scientifiche di altissimo livello, ma anche ordinatrice di un consenso fondato negli anni ‘30 su antiscientifiche mitologie razziali.
E oggi le potentissime reti di informazione che sono la sostanza stessa del nostro tempo e delle nostre società, che cosa producono prioritariamente, ordine o verità? O magari disordine e fake news? E in quali proporzioni e rapporti reciproci? Intendiamoci: la Verità maiuscola esula dalla ordinarietà dei problemi quotidiani, ma la dimensione politica, propria della nostra vita associata, esige delle certezze, pur settoriali e parcellizzate, ma incontrovertibili e orientate al bene. In loro assenza non si dà democrazia, ma nebbia e disaffezione. E nebbia e disaffezione – al dibattito, alla partecipazione, al voto – sembrano essere la condizione odierna del cittadino comune, fruitore generalmente passivo delle reti di informazione che lo avvolgono, lo condizionano e lo guidano al vero in cui credere, che muta in relazione alle circostanze e alle convenienze contingenti.
Se no, come spiegare le improvvise contestazioni a modelli di governo (urbano, nazionale o sovranazionale) prima condivisi da forze politiche diverse? E come giudicare le giravolte della comunicazione, che oggi condanna aspramente ciò che ieri approvava e magari adulava? Perfino la varietà e la sovrabbondanza dell’offerta informativa diventano fattori di disagio: nel dubbio che i meccanismi di selezione e di correzione funzionino ancora, come scegliere? a chi dare credito? Ma la perdita di fiducia nella autorevolezza dell’informazione (politica e non solo), si traduce in un danno difficilmente rimediabile, perché induce nel lettore/ascoltatore la sensazione che quanto gli arriva sulla pagina o sullo schermo non sia espressione della lingua del sì o del no, ma gergo accessibile solo a chi possiede il cifrario per decodificarlo. L’esito è deleterio e concorre a spiegare il progressivo scivolamento di settori delle cosiddette democrazie mature nell’apatia e nella accettazione di soluzioni autoritarie.